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Celesia E., 1886. Escursioni alpine, I. – I laghi delle Meraviglie, II. – Fontanalba, estratto Boll. uff. Min. pubblica istr., fasc. V, maggio 1886, 27 pp., 4 tavv.
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[editor’s note: Here the discovery of the Fontanalba area, 68 figures in two plates. The first Italian academic paper on Mt. Bego’s engravings, due to the literatus E. Celesia, who suggests that the engravings were made by the Phoenicians]
by Emanuele CELESIA
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Celesia E., 1886. Escursioni alpine, I. – I laghi delle Meraviglie, II. – Fontanalba, estratto Boll. uff. Min. pubblica istr., fasc. V, maggio 1886, 27 pp., 4 tavv.
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[editor’s note: here the discovery of the Fontanalba area, 68 figures in two plates. The first Italian academic paper over Mt. Bego engravings, due to the literatus E. Celesia, who suggests that the engravings were made by the Phoenicians]
by Emanuele CELESIA
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Emanuele CELESIA
Escursioni alpine
I. — I LAGHI DELLE MERAVIGLIE.
II. — FONTANALBA
I.
I LAGHI DELLE MERAVIGLIE IN VAL D’INFERNO.
Relazione a S. E. il Ministro della Pubblica Istruzione.
§. I
Oggidì in cui l’operosità degli Italiani accenna a destarsi e a ritentare l’antiche vie aperte dai loro padri nelle terre asiatiche ed africane, parrà cosa di poco momento, anzi affatto da meno, il richiamare ch’io fo gli studiosi a perlustrare una regione a noi congiunta per vicinità di confini, come quella che fa parte delle nostre Alpi Marittime: una regione che trasse il nome dai portenti che chiude nel grembo, pressoché inesplorata dai dotti, al pari del continente africano, e gravida al pari di quello, di problemi fìsici, naturali, geografici e storici, che chiedono una soluzione da noi. Tale è la Valle d’Inferno che conduce ai Laghi delle Meraviglie, così nomata la prima dalla spaventosa orridezza del luogo, e i secondi dall’ammirazione che destano ne’ riguardanti i massi e le rupi che li fiancheggiano, e in cui scorgi effigiati caratteri arcani, quadrupedi, uccelli, pesci, arnesi bellici e rusticani, e forse anche una serie d’avvenimenti a noi sconosciuti.
Questa valle dei Laghi segnalava fin da’ suoi tempi il Gioffredo (1), dicendola posta a levante della terra di Belvedere (2), non lungi dagli aspri monti del Fiero, del Capelletto e del Bego, a foggia di un triangolo, racchiudendo nel mezzo un bel piano, con entrovi ben nove laghi, tra loro in eguale spazio distanti, e circondati da una fìtta selva di larici. Sulle loro sponde provano, ei dice, erbe aromatiche e fiori rarissimi, de’ quali è proprio spuntare soltanto in agosto e settembre, quando pastori e caprai vi guidano i loro armenti, per essere in altri tempi il terreno tutto ricoperto di un manto d’altissime nevi e inaccessibile affatto la valle. La rigidezza del freddo non consente che vivano in quelle acque pesci di sorta alcuna (3).
Senonchè all’oggetto di porre in miglior luce quei luoghi e il loro aspetto orografico, è mestieri trattar brevemente delle regioni che dovremo percorrere.
§ II.
Il colle di Tenda noto altre volte col nome di Colle di Cornio, (Mons Cornius), presenta al sommo della via che in biechi e tortuosi aggiramenti lo valica a 1795 metri dal livello del mare, tali prospetti all’attonito sguardo, che ben pochi altri possono a lui
(1) P. GIOFFREDO. Storia dell’Alpi Marittime, pag. 47.
(2) Questa borgata, non lontana da Roccabigliera, siede tra la Vesubia e il Gordolasca, cinta da castagneti foltissimi e grasse praterie irrigate da acque purissime.
(3) Se ne eccettui quel lago che alimenta il Gordolasca, dovizioso di varia pescagione, in ispecie di trote e di anguille.
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pareggiarsi. Non più i conici ondeggiamenti de’ nostri Appennini: non più il profilo dei promontorii sporgenti entro flutti marini, non più quei lievi declivii vestiti di fiori, che fanno delle prode ligustiche un incantato giardino. Qui ti si offre dinanzi, specie dal lato di tramontana, un ampio anfiteatro di valli, coronate da picchi altissimi, per istrana varietà di forme, mirabili; qui i granitici colossi dell’Alpi, che quasi creazioni di una fantasia più severa, spingono al cielo i loro acuti pinacoli: e or si rompono in un filar di montagne incalzantesi, quasi cavalloni di mar burrascoso: or torreggiano quai guglie di ghiaccio, sulle quali aleggiano nubi leggiere e diafane, quasi un velo virginale: or si disegnano in rupi merlate, in creste capricciose cui le nevi intatte formano argentea corona.
Eterna sorgente di poesia che nulla ha di terreno! E invero più ti approssimi alle Alpi, e più l’anima si sente tocca e soggiogata calla immensità della natura: e pur mentre in noi si sveglia melanconicamente la coscienza della nostra fralezza, lo spirito si eleva e si esalta, quasi, dice il Muller, voglioso d’opporre la sua nobile origine al cumolo della materia che lo circonda.
Che se dallo spettacolo dell’erte piramidi reclini lo sguardo a quanto ti si volve d’intorno, ecco, sul ciglio di paurosi burrati, gli armenti: ecco precipiti cascatelle che come nastro d’argento, listano il verde cupo de’ boschi, e leggiadre famiglie di fiori, tra i quali vedrai spiccare l’euforbia officinale, gli arbusti del rododendro o vuoi ròsa delle Alpi, e innumerevoli sassifraghe, viole del pensiero e miosotidi, che formano un grazioso contrasto a quegli alpini rigori.
§ III.
Il comune di Tenda posto in una aprica valle, ove declina la via, a 817 metri dai livello del mare, siede alle falde della Ripa di Berno, sulla destra sponda del Roja, il Rutuba degli antichi: (1) smanioso torrente che tra formidabili strette devolve le impetuose sue piene che gli diedero il nome, e ricco de’ tributi recatigli dall’Aurobia, dalla Levenza, dalla Bionia, dalla Bevera e da altri fiumicelli minori, si versa dopo venti miglia di corso, sotto le mura di Ventimiglia, nel mare.
Alla valle principale del Roja fan capo sulla destra le vallicelle di Cairos, di Cieva, di Bionia, di Valmasca, della Maddalena e quella della Miniera, su cui dovrem rinvenire: a manca il vallone di Riofreddo e quello della Levenza, di cui fan parte le vallette di Morignolo, di Castiglione e del Bendola, che deriva le sue acque dall’alpestre Reseglio.
Non è mio intento, e men duole, narrar le vicende di Tenda, già sede della potente prosapia dei Lascaris, il dominio dei quali allargavasi dalla Turbia alla valle di Aroscia. Del loro antico castello, distrutto nel secolo XVII dal generale francese Le-Fèvre, più non restano che informi ruine. Ma a chi si aggira per quelle reliquie de’ secoli andati, par di scorgere ancora vestiti di ferro que’ temuti baroni, e in mezzo ad essi due gentili figure, per diversi casi, famose. E chi non pianse sui luttuosi destini di quella Beatrice di Tenda, che dopo la morte di Facino Cane, suo primo, marito, impalmavasi a Filippo Maria Visconti, cui recò in dote oltre i posseduti tesori, le città di Novara, Alessandria, Vercelli, Tortona, la contea di Biandrate, il dominio del Lago Maggiore e altre terre non poche? Ma il peso di un tal beneficio sapea troppo amaro all’animo efferrato del Duca, che preso ai vezzi d’Agnese del Maino, incolpò d’illeciti amori la virtuosa con-
(1) Rotubam cavum: LUCANUS, Phars. II, v. 422
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sorte, e strappatane con venti giorni d’orrendi supplizi la confessione, le fe’ recidere il capo. Né di te più serba memoria alcuna la rocca a cui tu imperasti, o Margherita del Carretto, che dal nativo Finale venisti sposa d’Onorato Lascaris, portandogli in dote le signorie del Maro e Prelà; eroina in un gentile e fortissima, come le tue imprese dimostrano e i titoli onde fosti onorata di Capitano di Castellane e d’Amazzone dell’Alpi marittime! O perché ne nostri scrittori cerco invano il tuo nome e la narrazione delle tue geste?
§ IV.
Lasciata Tenda alle spalle, t’occorre, piegando a mancina la valle di Briga, (1) meritevole anch’essa per naturali prodotti e per istoriche rammemoranze di non passare inosservata da chi si fa a perlustrare que’ gioghi, e in ispecie i picchi asprissimi della Colla di Tanarello che le sorge di fronte (m. 2043). Fra tutti i popoli alpini i Brigiani, tribù di pastori, furon quelli che più tardi piegarono il collo al giogo romano: e nelle lotte che impresero assai di sovente contro i signori del luogo e contro le finitime genti, sempre spiegarono quella tenacità di propositi e quello ardor bellicoso, ch’è proprio di popoli avvezzi alla indipendenza delle lor patrie montagne.
Siede il villaggio di Briga sulle sponde della Levenza, assai scaduto oggidì dall’antica sua floridezza. Della quale fan fede le gotiche costruzioni de’ suoi edifici, la sua cattedrale per curiosi ornati e per diverse opere d’arte, assai notevole. Del signorile maniero che ergeasi, quasi nido di falco, a cavaliere della terra, solo avanza un gigantesco torrione che i Francesi del 1794 tentarono invano d’abbattere. Ne fu primo signore quel Ludovico, che nato a cingere la spada e il lauro de’ poeti, fu ne’ verdi anni costretto, come secondogenito ch’egli era della famiglia dei Lascaris, a vestir le lane degli Agostiniani, finché un giorno gli occhi suoi si arrestarono in Tiburgia, nobile e avvenente donzella dei signori di Boglio, e sorella ovver consaguinea del grande Isnardo di Clandevez. I due giovani furono presi subitamente d’amore; ma insormontabile intoppo ai lor desideri era da un lato la volontà dei parenti avversi alle loro nozze; e dall’altra i voti solenni, onde Ludovico era legato alla vita clausurale. Ma un’ardente passione si fa via di ogni ostacolo, e i due amanti divisarono fuggire dalle case paterne. E ciò venne lor fatto dopo non pochi contrasti. Ludovico impalmatosi coll’amata fanciulla, corse diverse avventure; oppose all’ira de’ suoi nemici la spada, e a capo dell’esercito che la regina Giovanna assoldava in Provenza per raffrenare Brettoni e Inglesi che l’infestavano, compì onorate fazioni. Senonché Urbano VI che allor risiedeva in Avignone, avendogli ingiunto di ritornare al suo monastero, né potendo Ludovico in guisa alcuna rimuoverlo dal preso deliberamento, ei sen venne con gran corteggio a visitare la regina Giovanna, la quale sapendolo prode, generoso e capace di compiere ancora gran cose, prese apertamente a proteggerlo, e gli ottenne dal papa una dispensa, confermata poi da una Bolla di Gregorio XI, in virtù della quale non era tenuto a ritornare al suo chiostro che venticinque anni appresso. Il che non avvenne, essendo egli uscito di vita parecchi anni innanzi, nel 1379
(1) Briga, Brìsia, da bri, bric, onde bricco ossia monte: radice affatto italica, che ci dà ne’ Brigiani e Bresciani il popolo de’ monti ed anche i gagliardi ed i prodi. E per vero leggiamo: « Mater ejus Brig nomine, idest vigorosa vel virtuosa » Boll. Mart. 3, 269. I Galli Cenomani ed Insubri accolsero una tal voce, sostituendo l’abituale lor g al c italico; onde brig, bryn valeva appo loro alto, montagna. Quindi Artobriga sarà collis lapidosus: Litanobriga collis latus; e Brigantium, Brigantinus, Brigantes, Brigiani etc. suoneranno collium abitatores. Secondo Tolomeo dieciotto città della Spagna aveano la terminazione di briga.
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in questa sua terra di Briga, ov’ebbe la tomba. Chi sa additarne oggigiorno gli avanzi mortali? Eppure i suoi versi nella favella occitanica lo ascrivono fra i più valenti rimatori dell’età sua, come quegli che ogni altro avanzo in ricchezza d’invenzioni e armonia: di che rendono testimonianza i due poemi che di lui ci rimangono: La Miserias d’acquist monde e la Paurilha.
§ V.
Di San Dalmazzo non occorre occuparci se non per accennare che da questo villaggio piegando a man destra, di fronte allo stabilimento termale, si apre la via che per disagevole ascesa d’oltre due ore conduce alla Miniera in una valle degna di gareggiare con le più celebrate della Svizzera e del Tirolo. I naturalisti anzitutto troveranno ivi materia abbondevole di osservazioni e di studio. La miniera di piombo solforato a 1320 metri di altezza sta sul declivio australe del Bosco, fiancheggiando la sinistra sponda del torrente Valauria, ch’ha le sue scaturigini dai Laghi delle Meraviglie, e ne’ pressi di San Dalmazzo si devolve nel Roja. L’antichità de’ suoi scavi è comprovata dai mille aggiramenti di tre gallerie che l’una sull’altra addossandosi, si sprofondano nelle viscere della montagna: in ispecie la superiore detta dei Saraceni, di cui tratteremo a suo luogo. Le altre due che si manifestano assai più recenti, van conosciute col nome di Santa Barbera e di Vittorio Emanuele.
Tirando oltre per l’erto vallone, dopo parecchie ore d’aspro e forte cammino, per quantunque rallegrato da sempre nuovi prospetti e da foltissimi boschi, attraverso dei quali t’appaiono d’ogni intorno aree cascate e al basso le acque della Bionia spumeggianti fra i massi, ti avvieni in una strozzatura di monti ingombra di enormi macigni, sfaldati dai fianchi de’ gioghi imminenti, che ti guida alla piana, cui si assegnò da secoli il nome di Valle d’Inferno; nome che ben le si addice per la desolazione che regna d’intorno, per il tetrico color delle rupi che d’ogni banda l’accerchiano, per il difetto di ogni vegetazione da poche erbe infuori nell’estiva stagione, e per l’orridezza del luogo. Il pauroso silenzio di quella sconsolata vallea non è rotto che dagli stridi de’ falchi e delle aquile, che formano tra que’ dirupi i lor nidi. E invero giganteggiano ad occidente le acute vette del Bego, a mezzodì il Picco del Diavolo, conosciuto dai terrazzani col nome non manco significativo di Testa d’Inferno: e appresso il Capelletto e la Macruera e più lungi un esercito di monti costituente la catena dell’Alpi, degno diadema alle ubertose pianure piemontesi e lombarde.
Val d’Inferno è formata da una successione di diversi ripiani a diverse altitudini, il maggior de’ quali contiene i tre Laghi Lunghi, così nomati per la forma loro, non che da una serie d’altri laghi e serbatoi d’acque, che gli scoscendimenti delle roccie riempiono, e van via via diseccando: laghi che dalle fiancheggianti balze ritraggono un colore ferrigno, e i cui nomi speciali rispondono alla spaventosa tetraggine della regione, come lago Nero, lago delle Masche ossia delle Streghe, lago Carbone, della Matta, dell’Olio, e altri tali. Si giunge per impervi sentieri ai Laghi delle Meraviglie, posti a diverbi intervalli l’un sopra dell’altro, seguendo le falde occidentali del Bego. Lungo le lor prode, alla distanza di 1500 metri dai Laghi Lunghi, cominciano a mostrarsi in gran numero quelle roccie granitiche incise, onde il nome di meraviglie assegnato a que’ laghi. Vi si raffigurano uomini, animali di diverse generazioni, come teste di elefanti, di dromedari e di cavalli, di uri e di cervi, punte d’ascie e di frecce, elmi, scudi, picche, carri falcati, armi moltiformi e altri incogniti segni. Eguali incisioni t’occorrono nei laghi su-
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periori, a’ quali si giunge per traghetti disastrosi e difficili, come quelli, che trovansi a 2400 metri d’altezza, pari a quella de’ più elevati picchi de’ Caparzî e del Giura. Ivi a chi supera le rupi che li circondano, dalla parte occidentale, si mostra un masso a foggia di torre ovale, che presenta pur esso in tutta la sua lunghezza strane e meravigliose sculture. Anche al disopra di questi laghi, varcati non senza disagi la Baissa di Valmasca, si scorgono nella valle di Fontanalba, parallela a quella della Miniera, catulli di roccie con sopravi iscrizioni di egual natura e carattere. Lieta valle è Fontanalba, ricca di tassi e di larici: ameno un de’ suoi laghi, da cui, quasi Najade, sorge un’isoletta coronata di piante. Non son questi per altro i soli laghi di quell’alpestre regione. Non molto discosti trovi que’ di Valmasca, il maggiore de’ quali occupa una superfìcie di ben quaranta ettari: senza accennare a quello di Agnel, pur esso di considerevole ampiezza, ed altri ancora che non giova qui divisare, ma la descrizione de’ quali potrebbe assumere un’importanza geografica.
§ VI.
Queste figure e incogniti intagli che ad ogni più sospinto ti occorrono sulle pareti verticali del monte o sulle roccie accavallate a ridosso de’ laghi, e delle quali io non porsi che un’imperfetta nozione, sono incise su roccie di schisto grigio (serpentino schistoide) durissimo, coperto da una materia giallastra su cui staccano in guisa mirabile. Il Rivière (1), che in alcune d’esse scorgeva — quelque analogie avec la croi ansée des Phéniciens — le divideva in tre gruppi distinti:
Animali :
Armi, oggetti diversi :
Segni sconosciuti e indefinibili.
Il primo gruppo comprende teste di ruminanti, buoi, dromedari, elefanti, uri, camozzi, stambecchi, capre, montoni, cani e qualche uccello; il secondo punte di lancia, di dardi, di cuspidi, martelli e altre armi, di cui già più sopra toccammo; il terzo infine, circoli, figure ovali, quadrati romboidali, inscrizioni geroglifiche e altri oggetti mal noti. Di forme umane non iscorgo che una sola figura, cioè un uomo colle braccia levate in alto, le gambe allargate, e il capo reclinato sopra le spalle. Queste figure appaiono tali da non potere essere incise se non da scalpelli di ferro o di pietra; composte quai sono di una serie di bucherelli tondi, contigui e di un diametro di due a tre millimetri, e profondi non più di un millimetro.
Quali le opinioni poste in campo dagli indagatori delle antichità intorno a questi preistorici intagli? Quale la loro storia? Ignoro chi dopo il già citato Gioffredo ne abbia trattato con sufficiente larghezza. Soltanto nel 1821 F. C. Fédéré (2) indicavali all’osservazione dei dotti, e più recentemente Elysèe Reclus (3) in alcuni fuggevoli cenni riferiva la credenza radicata ne’ montanari che quelle roccie venissero così lavorate dai soldati di Annibale; il che non è ammesso dal Fédéré, che tiene per converso, non esser disceso l’eroe di Cartagine per il colle di Tenda in Italia, ma bensì i suoi generali, e che perciò quelle incisioni e caratteri che non sono, come egli dice, né greci, né latini, né arabi, deb-
(1) E. E. RIVIÈRE, Association Française pour l’avancement des sciences. Bollettino del Club alpino italiano per l’anno 1883. Vol. XVII, N. 50 pag. 16-20.
(2) Voyage aux Alpes Maritimes.
(3) Les Villes d’hiver de la Méditerranée et les Alpes Maritimes, pag. 173-74.
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bano aversi in conto di caratteri punici. Correndo il 1868 il prussiano Diek e il botanico inglese F. G. S. Moggridge ne ritrassero alcuni, ma senza precisione veruna, cacciati dall’asprezza del luogo, e li presentarono con brevi postille al congresso archeologico di Norwich. Ebbe per contro la ventura di potervisi trattenere più giorni Emilio Rivière, inviatovi nel 1877 in una con il De Vesly dal governo francese, e fu sua opinione che questi intagli dovessero riferirsi a genti di libica origine. Più recentemente il dottor Henry pretese dimostrare che fossero esclusivamente dovuti all’azione di un antico ghiacciaio (1).
Non men strano assunto tolse a sostenere Edmond Blanc, supponendo che le iscrizioni costituiscano altrettanti ex voto offerti a una terribile divinità che in Val d’Inferno aveva sua sede: il che, a suo avviso, vien raffermato dai nomi stessi de’ luoghi, rispondenti all’orrore della tetra vallata. Inutile il dire che di questa infernale deità non conservasi tradizione, né traccia veruna. Arroge a queste sì disparate opinioni quella di Leon Clugnet (2), che tiene doversi quest’opere alla rozza fantasia de’ pastori, i quali nelle lunghe ore d’ozio cercarono con quel lavoro una qualche lor distrazione. Fra gli Italiani non mi soccorre che il nome di Francesco Molon (3) che ravvisa in quelle incisioni un rudimentale alfabeto de’ popoli indigeni nell’epoca del trapasso della pietra lavorata a quella del bronzo; non che il Navello, che pur consentendo alla sentenza del Clugnet, ebbe il merito di porgere primamente una succinta descrizione di queste incisioni al Club alpino italiano.
§ VII.
Senonché le addotte opinioni, come è agevole il dimostrare, non reggono alla stregua della critica e della istoria. Anzitutto il passaggio di Annibale (di cui si gloria ogni alpina regione), non si compì fra que’ monti. Vero è che stando alle affermazioni di Catone, di Sempronio e di Ammiano Marcellino, egli avrebbe attraversato il colle di Tenda in quel punto in cui l’Alpi s’insertano allo Apennino, (Paeninus) che vuolsi abbia avuto dai Peni il suo nome, e ch’egli aprisse col ferro e col fuoco. Ma i più credibili autori ormai fan certa testimonianza che Annibale, valicato il Rodano sopra Avignone, non piegò verso le alpi marittime, ma pel Monginevro scese a Cesana, detta allora Scincomagus: dal qual luogo, per l’animosità dei popoli alpini fu costretto a gettarsi attraverso il Col di Sestrière e calare perciò in Val Chiusone. Appare assai più credibile che varcassero il colle di Tenda que’ capitani cartaginesi che trassero in suo aiuto in Italia: anzi Tito Livio nel XXXI libro delle sue storie ci afferma, che se i Massalioti e le loro colonie non si porsero benevoli agli Africani, questi per contro trovarono amistà e soccorrimenti nei Salii e nei Liguri che teneano quest’alpi, e che accorsero d’ogni parte ad ingrossarne le schiere. Non è per altro ammissibile che i punici condottieri deviassero nella regione de’ Laghi, a tanta altitudine dal livello del mare, mentre aveano, grazie ai popoli alpini
(1) Une excursion aux Laux des Merveilles. Vedi Annales de la Société des lettres, Science et arts des alpes maritimes. Tom. IV, pag,. 185
(2) Materiaux pour servir à l’histoire de l’homme Tom. VII, Liv. 8. Toulouse 1877.
(3) Preistorici e Contemporanei, pag 37-38.
(4) L’ingegner Felice Ghigliotti in un suo pregiato scritto sull’Alpi marittime, pur dichiarando che le sculture consistenti in figure di spade, scuri, pugnali, punte di freccie, reticoli e mille ghirigori son formate da tanti forellini, come se eseguite da uno scalpello a punta, conclude dicendo: chi le vuol celtiche, chi eseguite dai soldati di Annibale, chi dai Saraceni, e chi infine più scettico, non vi scorge che un passatempo di rozzi pastori.– Bollet. del Club Alpino italiano per l’anno 1883; vol XXVII, N. 50, pag. 225-263.
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con essi lor collegati, aperte altre vie più agevoli, e men elevate per ischiudersi un passaggio sulle rive padane; come non è del pari credibile che nel loro rapido transito potessero incidere su quelle roccie serpentine e durissime i segni e le scritture che vi si ammirano, e che migliaia di operai non avrebbero potato eseguire in più mesi. Non manco erronea è la sentenza di chi tiene aver l’Apennino derivato dai Paeni il suo nome. La voce Penn che si riscontra in più luoghi della nostra costiera, come Pentema, Penin, Penna e altri assai, e che vale sommità, giogo, è a gran pezza più antica, essendo il Penn, come è noto, il Dio eponimo della stirpe ligustica.
E che diremo di chi vuol ravvisare in quelle incisioni il primitivo alfabeto dei vulghi autoctoni; di chi l’ascrive agli sfregamenti e alle strie degli antichi ghiacciai, o a naturali impronte e alle mani de’ pastori? Opinioni che non franca la spesa di confutare. Non è agevole invero dare a questo problema un solvimento che valga a satisfare la scienza e la storia. Chi tentasse disgroppar questo nodo si troverebbe sopraffatto da intoppi e difficoltà d’ogni genere.
Non si ascriva pertanto a temerità sconsigliata se prendendo a guida il mito insieme e la storia, e gettando arditamente lo sguardo nelle profondità del passato, io mi attento a recare un po’ di luce in un buio che non fu finora solcato da raggio alcuno.
§ VIII.
Quell’eroe che la leggenda disse Ercole, e che riassume il ciclo delle migrazioni semitiche, non è l’Ercole argivo d’Alcmena, vissuto poc’anzi l’assedio di Troia, e a cui la vanità greca ascrive tutte le mirabili imprese, che sulle tradizioni raccolte da Timeo, ci conservò Diodoro Siculo, (1) sì bene l’Ercole della stirpe degli Uranidi, che visse parecchi secoli innanzi del greco, adorato in Egitto, in Tiro ed in Tarso, ove secondo le memorie del re Jemsale, (2) avea raccozzato il suo esercito.
Gli antichi che tante verità ci tramandarono sotto il velame de’ miti, vollero rappresentare in questo temosforo l’istoria della nazione fenicia, che sebben ristretta dietro il Carmelo fra la catena del Libano e il mare, spiegò non pertanto una meravigliosa operosità nelle industrie e ne’ traffici: di guisa che se a’ Fenici non si deve lo spargimento delle prime nazioni sul Mediterraneo, siccome il Vico affermava, si dee loro per altro l’averle scaltrite a consuetudini più umane e civili.
La storia antica non ancora prosciolta dal simbolo, ci rappresenta l’Ercole libico come disceso dalla Spagna e dalla Gallia in Liguria a pugnar co’ giganti (3), cioè co’ popoli alpestri e quasi selvaggi, contro i quali è fama combattesse per oltre due lustri. Gli si opposero anzitutto quei Liguri agguerriti e potenti che abitavano i primi valichi alpini, dacché Dionigi Alicarnasseo scrive che — Ligurum gens magna ac bellicosa, quae in ipso alpium transitu sedes habet, eum ab Italiae ingressione prohibere est conata. — L’eroe già stanco ed oppresso stava per cedere di fronte all’oste de’ Liguri, contro cui non valeano nè audacia, nè strali (4); quando Giove venne in suo aiuto, diluviando una tempesta di sassi sui Liguri; onde sul luogo del conflitto, Monaecus, oggidì Monaco, egli eresse un’arce e scavò un porto a perpetua memoria del fatto. Ciò viene altresì raffer-
(1) DIÒD SICUL. IV, 17.
(2) SALUS. De Bell. Iugur. XVIII.
(3) DION. HALIC. Ant. Rom. 1. L. — Diod. Sic. Lib. 5, c, 2 — Mela, 1, 2, c. 5.
(4) ESCHILO in Strab IX, 1.
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mato da Ammiano Marcellino, che dice — Primam viam… Hercules prope maritimas composita alpes. Monaeoi similiter arcem et portum ad perennem sui memoriam consacravit (1). — Gli astronomi lo collocarono nella volta celeste sotto il nome d’Ercole Ingenicolo, per avere in ginocchio implorato i soccorrimenti di Giove. Altri scrittori ci narrano ch’egli venisse alle prese con Albion e Bergion figlioli di Nettuno: sotto al qual velo è agevole riconoscere due popoli: le genti alpine e le tribù litorane, che unirono l’armi loro per respingere lo straniero invasore.
Vogliono alcuni e segnatamente gli scrittori francesi, che il luogo del principale combattimento fossero, anziché Monaco, i campi della Crau sulla sinistra sponda del Rodano, fondandosi sulla sterminata copia di ciottoli che tuttavia vi si scorge, e che servirono d’armi ai frombolatori fenici, per isgominare i loro nemici. Senonchè l’allegata autorità di Dionigi, rincalzata da quella di Marcellino, non lascia dubbio di sorta sul luogo della combattuta fazione: e ove un’aura di dubbio potesse ancor sorgere, questa verrebbe dissipata da Solino, che pone i campi lapidei in Liguria (2). Le Alpi Graje ebbero da questa pioggia di sassi il lor nome. Né punto rileva l’argomento addotto da Walckenaer (3) per accertare l’avvenimento della battaglia sui greti della Crau: che, cioè, il nome di Bergion ivi lungamente rivisse in quella Bergina civitas di cui parla Avieno: e nel nome di Ber e Berre dato allo stagno che v’impaluda: dacché il nome di Bergion trovasi ben maggiormente diffuso nelle nostre alpi, come Bergon, Bergue di Quà, Bergue di Prà, frazioni di Saorgio, Berga e Berra sul rialto dei monti asprissimi di Sena e di Claus, non che altri assai. Arrogo che anche il nome d’Albion trova il suo riscontro in Albion-Intemelium e in Albion-Jngaunum, ossia le tribù alpine degli Intemelii e degli Ingauni (4).
Sarebbe opera affatto vana il voler indagare in qual parte di Monaco sorgesse l’arce od il tempio che Ercole eresse a sé stesso, (5) simbolo della umana natura che riconosce ciò che s’agita in lei di divino; dacché alcuni affermano che sorgesse a ridosso del porto: altri che torreggiasse sul monte. Forse non andrebbe errato chi lo ravvisasse nei ruderi di un Fanum sulla vecchia strada fra Monaco e Mentone: ruderi che ancora attestano nella foggia della loro struttura un’antichità a cui l’istoria non giunge. (6) Quanto al suo porto, è accertato dall’Issel, credibilissima testimonianza, che nel seno detto di Beaulieu veggansi tuttora sott’acqua le relique di un antico navale; (7) il che c’induce a riferirlo, nel silenzio d’ogni altra memoria, a que’ popoli navigatori che primamente approdarono alle nostre costiere, tirativi dalla compra dell’ambra e dallo spaccio delle loro derrate. Altri monumenti fenici, cioè sepolcreti e canapi trincerati oggidì riscontrarono i dotti in questa regione, specie sulla sommità del monte Agel che sta a cavaliere di Monaco (8).
(1) AMM. MARCEL. XV. — STRAB. I, 4.
(2) Sol. Polyhist. c. VIII. — Strab. IV.
(3) Géographie ancienne. Tom. I pag. 116-117.
(4) Per questo solo rispetto al luogo d’origine, le tribù Intemelie ed Ingaune aggiunsero allo speciale lor. nome la comune designazione di alpine, chiamando le lor colonie marittime Albium ovvero Alpium Intemelium e Alpium Ingaunum, cioè Intemeli ed Ingauni delle Alpi. Questo vero sentiva forse anche Strabone scrivendo: Quum Ligurum alii sint Ingauni, alii Intemelii, consentaneum fuit eorum colonias maritimas alteram Albium Intemelium vocari, alteram, concisium aliquantum, Albigaunum. Lib. IV.
(5) Costituitque sibi, quae maxima dicitur, aram OVID. Fasti, 1, 580. Che i Fenici introducessero in Monaco il culto d’Ercole, è opinione eziandio del Rendu. Vedi Menton, Rocabruna et Monaco, pag. 3.
(6) BERTOLOTTI. Viaggio nella Liguria Marittima, vol. I, pag. 235.
(7) Atti della R. Università di Genova. Vol. 5, pag. 178-79.
(8) Annales de la Société des Lettres, Sciences et Artes des Alpes Maritimes. Tom. 3, pag. 281
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§ IX.
Io son di credere che i popoli liguri, i quali primamente s’opposero alle invasioni fenicie, contrastando loro il varco in Italia, fossero le varie tribù dei Capillati, (1) nome onde i Latini designavano da prima i Liguri tutti, ma che quando e’ tolsero a scurtarsi le chiome, (2) restò proprio della sola tribù de’ Vediantii, quale emblema di popolo libero. E i Vediantii abitavano appunto non soltanto il lembo di terra che corre tra il Paglione ed il Varo, ma ben addentro ne’ monti prolatavansi fino alle scaturigini del Tinia o Ectinia, ove il luogo di Vaus ritiene ancora un’aura del vetusto lor nome. Niun dubbio che ad essi s’unissero eziandio le tribù pianigiane che aveano per capitale Albion-Intemelium oggidì Ventimiglia; imperocché gli Intemelii si stendeano non solo dalla Turbia, (Trophea Augusti) al Tacua, oggi fiumana di Taggia, ma internavansi tra i Laghi delle Meraviglie, il colle di Tenda e le sorgenti del Tanaro. E perciò le minori tribù de’ Sagiontii, ossia gli abitatori di Saorgio, e quelle dei Brigiani o i montanari della Briga e di S. Dalmazzo, e forse anche quelle dei Vesubiani presso Lantosca, il cui torrente s’addomanda tuttavia Vesubia e mette nel Roja, non che gli Euburiati, o i valligiani della Nervia, dovettero anch’essi contrastare il valico delle loro montagne all’archegete libico; ond’è credibile che nei pressi di Monaco e nelle alte valli della Miniera, dell’Inferno, del Sabbione ed altre che a quelle collegansi, siensi combattute le memorate fazioni.
§ X.
Segue la leggenda a narrare che Ercole, debellati questi suoi primi nemici, si cacciasse più arditamente nelle forre dell’Alpi, ove si vide a un tratto assalire da un feroce montanaro, detto Taurisco (3) che s’oppose al suo progredire. Ercole lo volge in fuga non solo, ma lo persegue ne’ suoi dirupi e lo strozza. (4) Questo racconto simboleggia un’altra battaglia de’ Liguri alpigiani, detti Taurisci, Taurini (5) contro l’oste fenicia, la quale sappiamo essersi addentrata, come già nelle Cevenne e nei Pirenei, anche tra l’Alpi, avida di scoprire miniere d’oro e d’argento. È agevole il credere che tutte le tribù dei Montani gelose della loro selvaggia indipendenza, si levassero contro questi stranieri, che penetravano le lor sacre foreste, e v’apriano quelle vie portentose che l’urto del tempo non valse ancora a distruggere.
Parmi dopo il già detto, potersi fin d’ora mettere in sodo, che la superiore valle del Roja e le descritte regioni, e non la pianura del Rodano, siano state le vere sedi dei lunghi conflitti fra gli alpigiani e que’ temosfori che primamente le visitarono, (6) e ai quali è mestieri altresì riferire le sculture e i caratteri, di cui facemmo menzione. La rozzezza di quelle figure e l’uso costante in que’ popoli d’incidere le loro memorie nei sassi sotto la forma d’uccelli e di fiere, prima assai che gli Egiziani insegnassero a ser-
(1) Capillatorum plura genera ad confinium ligustici maris. PLIN Lib. III, c. 20 — Detti anche Lygies comati da DION. Lib. LIV, c. 24.
(2) Et nunc, tonse Ligur, quondam per colla decora Crinibus effusis tote praelate Comatae. LUCANUS. Phars. Lib. I. v. 442-43.
(3) Tor, taur, taurus suona nelle lingue arie montagna.
(4) AMM. MARCELL. XV.
(5) Antiqua Ligurum stirpe. Plin. III, 17.
(6) L’AMORETTI pone il luogo del combattimento fra Esa e Villafranca, ma senza rincalzo d’argomento veruno. Vedi pure il GIOFFRED., pag. 127.
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virsi a tal uopo della tessitura de’ giunchi, ne son prove apertissime ove s’attenda a Lucano, che scrive:
Phaenicies primi, famae si creditur, ausi
Mansuram rudibus vocem signare fìguris.
Nondum lumineas Memphis contexere biblos
Noverat et saxis tantum, volucresque, feresque,
Sculptaque servabant magicas animalia linguas (1).
Senonchè in una questione involuta da un buio che mai non sarà dato interamente schiarire, giova avvalorare di nuovi presidi le nostre induzioni.
Egli è noto che il passaggio e la dimora nell’Alpi Marittime di quelle immigrazioni di cui Ercole è il simbolo, vengono testimoniati dall’averle aperte a commerci, tagliandovi quella via gigantesca che fa ancor fede della loro potenza. Tale per fermo si è quella via che movendo da’ Pirenei orientali, costeggiava il Mediterraneo e traversava l’Alpi pel colle di Tenda: opera veramente pelasgica rifatta dai Romani molti secoli appresso e detta da loro Domizia. Allude a questa via aperta tra l’ertezze e gli orrori d’aspre giogaie non ancora da piè’ umano solcante, Silio Italico, là dove nel 3° libro parlando d’Ercole canta:
Primus inespertas adiit Tirintius arces:
Scindentem nubes, frangentamque ardua montis
Spectarunt Superi, longisque ab origine saecli
Intemerata gradu magna vi saxa domantem.
Con non minor meraviglia ne scrivea Diodoro Siculo nel libro V « Hercules in Italiam tendens iterque per alpes faciens ita difficilem aditu asperamque viam stravit, ut postea exercitibus cum jumentis, impedimentisque facile iter esset ».
E invero di facili comunicazioni aveano d’uopo i Fenici per darsi all’estrazione di quei metalli, onde abbondavano le nostre montagne. Io non intendo riferire all’opera loro le gallerie delle Mescles, nella valle del Tinea, Molières, in Valdiblora, a Castiglione e a San Salvatore; ma tutto m’induce a ritenere che debbasi loro attribuire le spaziose gallerie della miniera della Vallauria e le inesplorate lor cavità, che non potrebbero, a quanto si afferma, in un sol giorno percorrersi. La galleria superiore in ispecie, che serba manifeste le impronte d’una antichità remotissima; e dacché non ponno di queste immani opere ritenersi autori gl’indigeni, né tampoco i Romani, essendone affatto mute le istorie, ragion vuole che si debbano ascrivere a que’ popoli industri che ci recarono l’uso dei metalli e costumanze civili. Vero è che questa galleria, oggidì abbandonata porta il nome dei Saraceni: ma tornerebbe a troppo grave errore l’attribuirla a quei barbari che stanziati prima dell’undicesimo secolo in Frassineto, a null’altro intesero che porre a ruba e pirateggiare le. nostre costiere. (2)
È del pari smentito che i lavori metallurgici ivi compiuti sieno opera del duca Emanuele Filiberto,. che nel 1564, guidato da fallaci indizi, si travagliò vanamente a cercare
(1) Phars, Lib. III, v. 220-21.
(2) Anche nelle miniere della Morienne si additano gli scavi dei Saraceni, nel nome de’ quali t’avvieni in quasi ogni passo dell’Alpi. Ond’è, osserva il Bertolotti, che come nella valle d’Aosta le fabbriche dei Romani che vi si ammirano, son dal volgo attribuite ai Saraceni, così siam condotti a credere, che cancellati nella mente dei rozzi alpigiani la memoria degli antichi dominatori del mondo, conservassero quelle soltanto delle scorribande mussulmane che avean portato il ferro ed il fuoco nelle lor pacifiche valli, e che quindi ogni antica opera prendesse il nome di opera dei Saraceni — BERTOLOTTI, Viaggio nella Liguria Marittima, vol. 3, pag. 246-47.
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l’argento in Malières, e l’oro in Valdiblora. Queste vestigia di antichità, unitamente ai frammenti d’arnesi libici ivi sterrati, in alcuni dei quali si volle ravvisare l’effigie degli Dei Cabiri o Patechi, e perfino le paurose leggende di demoni, di giganti e spiriti veglianti al varco di que’ tetri cunicoli, considerati come spiragli d’inferno, non solo nelle tradizioni locali, ma fìnanco nel Breve del xv aug. 1560, che Pio IV concedeva al duca Sabaudo, facoltandolo alla escavazione di quelle miniere, fan manifesto, che soltanto ad immigrazioni fenicie ànnosi a riferire la via schiusa fra gli alpini dirupi, le vaste crune ivi scavate o quelle misteriose iscrizioni che forse attestano le vinte battaglie e l’opere di civiltà per essi compiute, dacché io sia d’avviso che le diverse figure rappresentino altrettanti vocaboli.
§ XI.
L’istesso culto di Ercole così diffuso nelle Alpi Marittime attesta la di lui presenza in que’ luoghi, e la riconoscenza onde quelle tribù proseguirono nell’età posteriori i benefici ad esse recati. Senza dire del tempio di Monaco, ai cui sacramenti traeano le finitime popolazioni, trovansi indizi certissimi della di lui religione in tutta l’alpina catena. Presso il santuario di N. S. della Salette si rinvenne una lapide con la scritta — Herculi sacrum — Notevoli sono le medaglie dei Segusini e l’epigrafe rinvenuta a Clan sulla sinistra del Tinia dicatagli dagli Almancenses, gli odierni abitatori di Clanzo, in cui leggesi il nome d’Ercole lapidario, che ricorda la vittoria da lui riportata nei campi lapidei. Anche in Cimella, (Cemenelum) capitale de’ Liguri Vedianti, ci occorre il culto d’Ercole Cemeneniaco annestato a quel di Serapide, non dubbio argomento d’irraggiamenti fenicio-pelasgici.
§ XII.
E qui debbo farmi carico di una obbiezione che sorge spontanea nel concetto di molti. Come poteano tra le cupe desolazioni della Valle d’Inferno fermare lunga dimora i volghi migranti, ai quali si riferiscono le simboliche incisioni che in essa s’ammirano? Le quasi perpetue nevi che infestano quelle vallate, le assidue bufere che con orrendo fracasso vi scoppiano, i vorticosi rovaj, l’asprezza infine dell’aere, che rappiglia i laghi e gl’incrosta di ghiaccio, doveano rimuovere ogni essere umano da que’ luoghi, oggidì appena accessibili nella stagione dei più estuanti calori, sebbene anche in questa stagione non corra mai giorno, che dopo il meriggio furiose tempeste accompagnate da grandine non vengano a scaricarsi in quella sconsolata regione. Ma chi ignora essere stato allora il clima di quelle giogaie a gran pezza più temperato, e perciò possibile stanza non solo ai guerrieri rotti ad ogni disagio, ma eziandio a quelle native tribù, che non aveano altro ricovero che i cavi sassi e le naturali caverne? Attesta infatti Diodoro, che in quelle età i nostri progenitori «ad cava saxa, speluncasque ab natura factas ubi teguntur corpora divertunt.» (1) Oggidì non verrebbe più fatto ad alcuno di porvi sua stanza. Imperocché il diboscamento delle montagne e il conseguente avvallarsi delle valanghe, e il ruinar delle pioggie come ha fatto cambiare aspetto a quei luoghi, così inasprirono il clima di guisa da renderli affatto deserti. «All’abbassamento della temperatura di queste regioni, così trovo scritto, ha contribuito non poco la strage dei boschi nelle alture di Nava, delle
(1) Lib. V. c. 9 De Liguribus.
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sorgenti del Tanaro, della Colla di Briga, di Tenda e di Triora» (1), ond’è che le brulle cime delle montagne andarono ognor più logorandosi dalle pioggie che le dilavavano e ne portavano al basso le spoglie, accrescendo il rigore e l’incostanza del clima, col togliere a noi il benefico riparo dei boschi, e alle tempeste ed ai turbini la loro naturale barriera. D’altronde non ignorano i geologi quai rivoluzioni e scuotimenti abbiano subito le alpi ligustiche anche ai tempi di Plinio; dal che si trae che le mutate condizioni dei luoghi non poteano esser d’ostacolo a umani consorzi.
§ XIII.
Certo egli è che a questi temosfori devono le tribù apenniniche e alpine il dirozzamento dei loro aspri costumi, l’esercizio del mercatare e l’abito della ospitalità. (2) Ed Ercole, corruzione della voce fenicia Karokel che suona mercatante, rappresenta appunto quei Pelasgi-asiatici, che dopo avere visitato Cipro, Greta, Rodi, Samo e dominato la Spagna, (3) posero alle nostre isole e ai nostri lidi, estendendosi fino alla Britannia e nell’Africa. Utica venne per essi fondata millesessantasei anni innanzi l’era volgare, e forse intorno a quest’epoca stessa eressero Antium nella Mauritiana, Saba, (4) e Petra lungo il Mar Rosso. Questi nomi ci occorrono egualmente in Liguria, nomi di ridotti navali, che conforme un antico costume si piacquero riprodurre fra noi. Ond’è che il luogo di Petra, (Pietra) la stazione Sabatia, (Savona) e i molti Antium delle nostre prode marittime (5) potrebbero ritenersi quai luoghi d’approdo de’ navigatori fenicii, per quanto ne taccia, come di troppe altre cose, la storia (6).
Tutto adunque concorre a rincalzar l’opinione che autori delle incisioni e caratteri sculti sulle roccie intorno ai Laghi delle Meraviglie sieno i Fenicii, che stanziarono lungamente in que’ dossi a rintracciarne i metalli. E invero quei popoli si ritennero come introduttori dell’alfabeto, perché ovunque lasciarono con geroglifici e incogniti segni visibili traccie del loro passaggio.
L’uomo fu sempre spinto da una vanità quasi infantile a lasciar memoria di sé: onde non è meraviglia se in queste e in tante altre iscrizioni rupestri le sepolte generazioni eternassero l’istoria delle lor geste. E invero tali iscrizioni lapidee trovansi in Algeria, in Tunisia, in Marocco nella provincia di Sus. Nelle roccie vulcaniche dell’isola del Ferro (Canarie) in un luogo detto Los Letreros si riscontrano in sì gran numero da raggiungere oltre quattrocento metri d’estensione (7). L’America singolarmente ne abbonda; nel Nuovo Messico tra le profonde stretture in cui scorrono il Mancos ed il San Juan: sulle sponde del Lago Salato presso Utah e in quelle dell’Orenoco presso l’estinto vulcano di Masaya, sulle roccie dell’Honduras e degli Stati Uniti della Colombia,
(1) Osservazioni di un coltivatore di Diano sulla Liguria Marittima. Vol. 2 pag. 20-21.
(2) DIOD. SICUL IV, 19 — DYON. HALIC. I, 41 — MACROB. L. 7, 11.
(3) Secondo la ristretta cronologia di Valleio Patercolo, vi fondarono la colonia di Gadèira, oggidì Cadice, nell’undicesimo secolo innanzi l’èra volgare. Altri con miglior consiglio la fanno più antica di parecchi secoli. Vedi Movers, Poenizisches Atterthum, pag. 147 e seg., pag. 625 e seg. Furono del pari loro colonie Malaga e Almeria.
(4) Ad occidente dello stretto di Dirac, oggidì Bab-el-Mandeb, cioè Porta del pianto. Quasi sul luogo di Saba sorge ora Arab. V’era un’altra Saba, oggidì Schab-Mareb, nel Jemen o Arabia Felice. Di una terza Saba si mostrano ancor le ruine in Sehar nella penisola che s’avanza fra il golfo persico e quello d’Oman.
(5) Anse, cioè rade, ne’ linguaggi locali.
(6) On sait… que les Phéniciens furent les premiers explorateurs des côtes des alpes-marittimes, où ‘ils fondèrent des colonies. L. DURANTE, Ohorographie du Comité de Nice, pag. 292.
(7) D’Alberti, Crociera del Corsaro, pag. 67.
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senza pur rammentare quelle di cui fan cenno i conquistatori spagnuoli del 1520, e che videro impresse sugli istmi di Darien e di Panama, e sulle Montagne Bianche, tra lo Stato di California e quel di Nevada. E non ne va priva l’Europa, dacché molte se ne ammirino sculte sulla pietra Escrita della Sierra Morena ed altre nella Andalusia e in Gallizia. Molte ne rinvenne il Wirchow nell’Holstein; altre se no scopersero nella Svezia, nella Norvegia, nell’isola della Danimarca e nel Jutland, che com’è noto, i Fenici solean visitare, per cavarne l’ambra e lo stagno. Ignoro quai somiglianze possano aver queste con le iscrizioni dei Laghi delle Meraviglie, dacché non mi venne fatto d’averle sott’occhio. Bensì afferma il RIVIÈRE, che alcune delle iscrizioni di Val d’inferno «presentent une véritable parenté avec celles des Canaries, et surtout avec celles qui ont été trouvées au sud du Maroc (1) ».
Ove ciò fosse, sarebbe questo un nuovo argomento per credere che le Canarie non fossero ignote agli arditissimi navigatori di Tiro. Certo è per altro che più stretti punti di contatto con le iscrizioni dell’Alpi marittime offrono quelle che scoperse Viette nei Pirenei, Bonstetten nella Brettagna settentrionale, Falsan nella valle del Rodano, cioè lungo la via tenuta dalle immigrazioni fenicie per calare dalla Spagna in Italia.
§ XIV.
Dopo aver Ercole combattute lungamente le selvaggie tribù dell’Apennino e delle Alpi e ammorbidite le lor costumanze, trasse nella Liguria piana od alta Italia, ove ebbe del pari a sostener dure lotte col re ligure Cigno ricordate da Esiodo (2). Ma io non debbo uscir dalla cerchia che mi sono tracciato, pago di ricordare che l’eroe tirio, l’Ercole di Sanconiatone, il Melkarte (3), rappresenta non solo la personificazione delle invasioni fenicie, ma eziandio il mito figurativo del passaggio che l’umanità faceva dallo stato selvaggio a un vivere più riposato e civile. Soltanto in questa guisa le primitive leggende, le tradizioni e le verità a noi tramandate dai poeti, dai simboli e dagli storici, possono avere una spiegazione che appaghi, e porsi in armonia colla scienza (4).
§ XV.
E qui prima di por fine a questo mio qualsiasi ragionamento, mi si consenta di volgere un caldo richiamo alla gioventù nostra, che in tanta prossimità de’ luoghi testé divisati disconosce tuttavia una regione che può dirsi il compendio di tutti gli orrori e di tutte le bellezze dell’Alpi. L’Italia è pur troppo ancora ignota a sé stessa. Arditi viaggiatori si cacciano con insuperata costanza per plaghe lontane ed inospiti, e intanto le terre a noi più vicine e affatto nostre trascuransi. L’altrui conosciamo; ciò ch’è di casa s’ignora. Il governo francese con lodevolissimo intendimento manda dotti ed archeologi ad esplorare Val d’Inferno, se per avventura da quelle roccie scolpite si potessero cavar nuove illazioni a lumeggiare i secoli oscuri dell’istoria dell’uomo; e noi assistiamo impassibili a
(1) E. RIVIÈRE, Gravures sur roches des Merveilles au Val d’Infer. Paris, 1878.
(2) Scutum Herculis v. 57 — Vedi altresì HYGEN Fab. n, 31 e 231 — Diod. Sicul, IV, XXXVI. 4 — PAUSAN Att. XXVII, 6.
(3) Da malech re, capo e da Karte, la città, la nazione.
(4) CORAZZINI, I tempi preistorici, pag. 211, 218.
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queste esplorazioni scientifiche, né ci diamo briga alcuna per imitarle. Oh non è collo sterrare qua e là alcuni ruderi, qualche frammento d’iscrizione o di statua che si avanza la scienza; egli è mestieri salir le montagne, prima stanza dell’uomo; interrogar l’opere della viva natura, leggere nei monumenti granitici le prime istorie degli incipienti consorzi. Or bene; i sodalizi alpini di Genova, di Savona e di San Remo si tolgano il carico della nobile impresa. E la nostra posta sul primo scorcio del prossimo agosto sia il colle di Tenda. Di là, divisi in drappelli, ci sarà dato percorrere la chiostra delle Alpi ligustiche, e porne in mostra i tesori. Ne saranno per fermo avvantaggiati gli studi. Ivi, credetelo, c’è materia per tutti.
Gli archeologi e i cercatori delle antichità più remote potranno a bel agio internarsi fra i Laghi e le vallate contermini; aggiungendo alle duemila incisioni già note, altre assai che scolpite su quei massi rocciosi stan rinverse tuttavia nel terreno o ricoperte dall’erbe; e forse, o ch’io m’inganno, verrà lor fatto di rinvenire quell’una, che possa darci finalmente la chiave per scifrare i misteri di quell’arcano linguaggio, e accertarne gli autori. Gli interpreti e i chiosatori de’ classici avranno agio ad indagare e porre in veduta quegli Aggeres alpini di cui cantano Virgilio e Silio italico (1): e ne troveranno i vestigi ed il nome nel luogo di Aggel o Argeaulx, (2) dove ancor veggonsi, specie nella regione detta Gaiant, antichi recinti d’immani petroni l’un sull’altro commessi: (3) opere che attestano ancora una potenza titanica. E in più luoghi del pari occorrean le vestigia di quei campi trincerati che Cesare nomò oppida, e che serviano di schermo e propugnacolo ai Liguri antichi nelle lor guerre secolari con Roma; specie in Peymenerga e alla Touracca nel comune di Roccabruna: campi e trincee non dissimili da quelle ch’altri già scoperse a Mauvans, alla Tourrè, all’Audido, a Camp-Long e alla Malle.
Per chi si piace della storia della Liguria nelle sue parti più ottenebrate, come è il IX secolo, troverà messe abbondevole nelle memorie di quei Saraceni che, annidati nelle nostre costiere, scendeano da questi valici alpini e recar lo sterminio nel Vallese e nella Savoja. Imperocché gli sarà dato di rinvenir molte traccie dei loro frassineti alla Turbia, al Col de Frassins tra Castiglione, Sant’Agnese e Peglia; a Maurigon nella valle del Roja, a Utelle (Fraxinet de Manouines), a Lucérame (Fraisset, Fraxet): tutti collegati a quelli del litorale, ed in ispecie con quelli di Villafranca e di Saint-Tropez. Con ciò potranno raccogliersi nuovi materiali per dettare la storia dell’invasione saracena in Liguria, di cui sentiamo ancora il difetto.
Presso il monte alle cui falde si stende l’abitato di Tenda sprofondasi nella viva roccia un vasto antro, nomato la Balma delle Cauette, in cui già soleano raccogliersi, come in sicuro ricovero, le smarrite popolazioni allo irrompere delle correrie saracene. Ma nel secolo XV divenne l’asilo ed il tempio di quei Valdesi, che protetti da Claudio, signore del luogo, formicolavano in Tenda, Briga e Sospello. Senonchè venne a fulminarli il duca Emanuele Filiberto cogli editti del 16 settembre 1560 e 11 giugno 1565, talché perseguiti da G. Battista de’ Giudici, vescovo di Ventimiglia e dai suoi successori col ferro e col fuoco, pagarono caro il fio delle loro audaci dottrine. Sarebbe questa una nuova e dolorosa pagina da aggiungersi alla istoria dei Valdesi in Italia (4).
(1) ENAEID Lib. 6, v. 830 — Bell. Punic. Lib. 3.
(2) Monte tra i confini di Turbia, di Peglia e di Roccabruna, che separava la diocesi di Ventimiglia da quella di Nizza.
(3) GIOFFREDO, Storia dell’Alpi Marittime, pag. 23.
(4) Gli Eretici di Tenda, Briga e Sospello. Frammenti storici di Pietro De Giovanni.
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Oggidì in cui fioriscono gli studi glottologici e de’ patrii vernacoli, i nomi topici delle Alpi marittime, (in cui alle stirpi aborigeni si mescolarono Fenicii, Focesi, Celti, Cartaginesi, Romani, e più tardi Saraceni, Provenzali e Francesi, lasciando ciascuno di questi popoli nei nomi locali, nelle parlature dei volghi, nelle profferenze e nei suoni, un qualche vestigio della loro favella, daranno ampia messe di curiosi raffronti e di nuove indagini. Valga a tal uopo un solo esempio dei molti ch’io potrei riferire. Ubega è nome assai diffuso nell’Alpi, e suona luogo tetro e selvoso. Scrutando l’origine di questa voce, io trovo che ubeghi, ubaghi presso i Slavi diconsi gli alci, specie di grandi cervi, che un dì popolavano i dorsi delle Alpi e degli Apennini. Non è fuori del verosimile che dal nome di questi fieri animali derivasse quel d’ubago, che accenna appunto alla natura dei luoghi in cui soleano abitare; vocabolo che in altre parti della Liguria si corruppe in sluvego o luvego, serbando pur sempre l’istessa significazione. Che se a taluno non arridesse una tale derivazione, potrà con eguale agevolezza cavarla dal nome degli Ubages od Eubages, antichissimi sacerdoti, ricordati da Ammiano Marcellino, i quali soleano stanziare nel cupo orror delle selve. Le foreste di Dolceacqua, d’Abegno, di Pigna e d’altre regioni, che tuttora nomansi Ubago, terrebbero forse la loro appellazione da questi Ubages ch’ivi esercitavano i misteriosi lor riti? Altri con maggior competenza potrà forse chiarirlo.
Sarebbe prezzo dell’opera raccorre eziandio tra quelle alte vallate, fedeli custoditrici dell’antichissimo idioma, alcune strane voci che in esse corrono, come vastera, chiot, magheria, gias e ciabot, che suonano capanne, abituri, e cercarne le radici e le provenienze nelle lingue arie e nel basco. E dico basco, perchè niuno ignora dopo Humbold, la stretta analogia che corre fra la lingua eusckara e il ligure antico. Forse in questa guisa ci verrà fatto d’apprendere perchè in alcuni loro dialetti ed eziandio nel nicese, la donna dicasi erau, il sentiero drajo, il sogno pantai, e altre voci non poche che furono sino ad ora un arcano pei dotti.
L’età medievale e le tirannidi esercitate dai conti di Tenda, dai marchesi di Boglio, dai Dolcacqua, dai Grimaldi, dai Doria, da Guidone Guerra e altri tali sui loro vassalli, troverem scritte nelle castella e nei manieri feudali, che ad ogni pie’ sospinto ci occorrono tra le forre di quelle montagne. Nè i fieri avvenimenti che scombuiarono sul declinare del secolo andato tutta l’Europa, rimasero senz’eco nelle alte valli del Roja, della Nervia, dell’Argentina e della Vermignana: ma sopratutto ne parlano ancora le strette di Saorgio, dell’Autione, di Lantosca e del Raus: ove i generali di Francia Brunet, Serrurier e Massena trovarono, per ben quattro anni, aspro intoppo nel valore de’ Piemontesi che respinti più volte, tornavano più vigorosi all’assalto. Mente umana non può comprendere quante prove di valore si compiessero sulle balze del Raus, Autione e Milleforche, disfidando gli Austro-Sardi del par che i Francesi, le nevi il gelo e la fame, occupati sol dal timore di mostrarsi codardi. Soltanto uno strattagemma dovuto al generale Rusca, nativo di Briga ed esperto dei luoghi, fe’ sì che i Francesi, duce Massena, potessero girar le linee delle sarde milizie risalendo le valli di Dolcacqua e di Taggia, e assalirle da tergo, e in tal guisa costringerle a sgombrar la valle del Roja per il varco di Tenda.
Non basta; i cultori delle discipline geografiche potranno ivi indagare la vera linea di partimento fra le Alpi e gli Apennini, e così sciogliere una quistione che da duemila anni si agita inutilmente fra i dotti.
E invero: sarebbe il Colle di Tenda il fine delle Alpi, come insegnano il Marmocchi, il Decastro, il Casalis, o non piuttosto il Monte Galero, come è avviso del Zuccagni Orlandini, e perciò Rocca Barbena il primo monte degli Apennini? Questo limite fra l’una e l’altra catena assi a ricercare al passo di Pouriac ossia all’Incastraja, come è sentenza di Plinio, Strabone e di parecchi moderni? Ovvero accetteremo la sentenza di chi fa ter-
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minar l’Alpi al monte Cassino o Maronere, e al monte Saccarello principiare la vertebra dell’Apennino, e il tratto di circa tredici chilometri che corre fra questi due monti altro non costituire che la giuntura dei due nostri sistemi orografici? Amerem meglio ravvisare il primo svolgimento degli Apennini al monte Gottaro, come avvertiano Vitruvio, Pomponio Mela e il Boccaccio? Dovrem porre il limite estremo dell’Alpi al colle delimitare presso a Montenotte, fra i gioghi Alto e San Giorgio, come volea Napoleone I, e dopo di lui il Malte Brun, il Brughiere ed il Balbi? ovvero seguire l’opinione del P. Spotorno che pone il confine alpino sopra Finale, cioè tra il Settepani e il monte Alto? In tanto ondeggiamento e varietà d’opinioni non sarà senza pregio far prova di sciogliere un nodo che va più sempre aggruppandosi.
Per ciò che s’attiene alle scienze naturali, troveranno i loro intenditori largo alimento nelle ricchezze mineralogiche e litologiche di quelle regioni, come i botanici nella mirabile varietà della Flora che ammanta quei culmini alpini.
S’apre ai nostri sodalizi, come ognun vede, un campo vergine ancora; raccogliere le tradizioni e le leggende dell’Alpi: affrettarne i rimboschimenti: restaurarne i sentieri: fondare osservatori meteorologici e pluviometrici, onde potrà avvantaggiarsi l’agricoltura ligustica, quando avrà assunto anche fra noi un più scientifico e largo indirizzo.
§ XVI.
Affrettiamoci adunque a salir le montagne, a esplorarle e a lumeggiare gli avvenimenti di cui furono sede, anziché i nostri vicini vengano a tòrci affatto ogni palma anche in questo nobile agone. Vi rammenti esser debito di ogni italiano conoscere le nostre Alpi, queste rocche d’Italia, come le disse Polibio: debito più intenso per noi che l’abbiamo sì presso: quelle Alpi che potrebbero esser ancora il teatro di nuove e mortali conflagrazioni. Non sono le bastite e i fortilizi di Tenda, di Nava, di Zuccarello, di Melongo, di Cadibona e Sassello, che potranno ribattere un aggressore: bensì i petti dei cittadini e i moschetti infallibili dei guardiani delle Alpi. E tali ci costituì la natura, che le pose a schermo tra noi e la rabbia straniera.
Affrettiamoci a salir le montagne eziandio per diletto, e per ritemperare l’anime nostre accasciate ne’ più sublimi spettacoli della natura, e trovare in essi un’obblivione a que’ disinganni, che amareggiano a tutti, chi più chi manco, la vita. Quando dall’alto del Mongioja (m. 2631), del Bego (m. 2875), dalla Cima d’Abisso (2755) e dalle rocciose punte del Clapier (m. 3046), spazi collo sguardo all’intorno; e tutto ti si para innanzi da un lato il diadema dell’Alpi, dal Monviso all’immani piramidi del Rosa, mentre dal lato opposto torreggiano le frastagliate cime del Delfinato, e più sublimi di tutte le guglie dell’Argentiera (m. 3300) e dei Gelas (m. 3130); quando come a riposare lo sguardo affascinato da tanti aerei prospetti, ti volgi alle rade incantevoli della Liguria e della Provenza, e scorgi lontan lontano, quasi macchia nereggiante, la Corsica e la distesa infinita dell’acque, non senti forse farti maggior di te stesso, e vivere cento vite in una sola vita? Colpito Ugo Foscolo all’aspetto della valle del Roja e dei monti che la soprastano, così scriveva: (1) — là giù è il Roja, un torrente che quando si disfanno i ghiacci, precipita dalle viscere dell’Alpi, e per gran tratto ha spaccato in due queste immense montagne. Ho spinto gli occhi fin dove può giungere la vista, e percorrendo due argini di altissime rupi e di bur-
(1) Ultime lettere di Jacopo Ortis. Firenze pag. 118
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roni cavernosi, appena si veggono imposte sulle cervici dell’Alpi altre Alpi di neve che s immergono nel cielo, e tutto biancheggia e si confonde. Da quelle spalancate Alpi scende e passeggia ondeggiando la tramontana, e per quelle fauci invade il Mediterraneo. La natura siede quivi solitaria e minacciosa, e caccia da questo suo regno tutti i viventi; i tuoi confini, Italia, son questi. —
No, non son questi, sdegnosa anima d’Ugo, i confini d’Italia. Essi furono segnati dalla mano archetipa della natura e dalla partizione d’Augusto: e a questi accenna il poeta cantando:
Finis et Hesperiae promoto limite Varus (1)
II.
FONTANALBA (ALPI MARITTIME).
Relazione a S. E. il Ministro della Pubblica Istruzione.
ECCELLENZA,
Le trasmetto due fotografìe (Vedi tavole) di cui una rappresenta un tratto di Val d’Inferno, e l’altra uno de’ Laghi Lunghi; come pure le invio n. 59 figure o incisioni simboliche, (Vedi tavole) divise in due serie, da me scoperte sulle alture di Fontanalba.
Giunsi il 7 agosto p. p. per la valle del Roja in S. Dalmazzo nelle alpi marittime, da cui mi convenne, non avendo trovato ricovero in quell’ospizio, trasportarmi nella terra di Tenda. Ivi mi avevano prevenuto d’un giorno i miei colleghi della sessione Alpini della società Cristoforo Colombo di Genova, capitanati dall’egregio loro presidente, cav. Giuseppe Oberti. Giovani baldi ed arditi, non si peritarono il dì dopo il loro arrivo di superar l’erta della Miniera, e per i laghi delle Meraviglie internarsi in Val d’Inferno. L’incredibile orrore de’ luoghi verrà alla E. V. testimoniato dalle fotografìa già accennate, prese dal sig. Domenico Castelli, espertissimo disegnatore. E a dolore che questi valenti alpinisti, fidandosi nel loro coraggio a disfidare ogni rischio, non abbiano in tempo opportuno abbandonato quelle tetre vallate; poiché sopraffatti dal fiero uragano, che imperversa pressoché sempre dopo il meriggio tra quelle forre, dovettero, battuti dalla grandine e dalla pioggia ridiscendere in Tenda, portando seco loro per altro diverse incisioni prese in que’ luoghi. Né più ritentarono una seconda perlustrazione, dovendo il dì appresso partirsi, come infatti avvenne, per Cuneo.
Rimasto privo di così valido aiuto, attesi il momento opportuno per la divisata esplorazione di Val d’Inferno, in gran parte ancora mal nota, affidato in ispecie alla perizia di una ottima guida, Domenico Lanteri, ardito cacciatore di camosci e conoscitore di quelle valli e dei pericoli ch’esse presentano. Ma la mia speranza venne frustrata; la bufera che in que’ giorni furiosamente batteva quelle inospitali montagne, da cui rifuggono gl’istessi pastori, non mi consentì di potervi penetrare, non che soffermarmivi.
(1) LUCANUS. Libro I. v. 404, Con lui concorda Vibio Squestro che scrive «Varus hic nunc Galliam ab Italia dividit».
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Un buon pensiero allor mi soccorse: perlustrare le valli contermini non così esposte al furiare delle tempeste, e in ispecie quella di Fontanalba, ch’io sapea contenere iscrizioni e geroglifici, e che non mi risultava fosse stata ancora scientificamente esplorata. Mi si offersero a compagni il maestro comunale di Tenda, sig. Pietro Degiovanni, e il prof. Francesco Bacchialoni, che valentissimi entrambi, mi tornarono di grande aiuto in quelle escursioni.
La valle di Fontanalba, parallela a quella delle Meraviglie, da cui la divide il colosso del Bego, si inalza non meno di 2300 metri sul livello del mare. Vi si giunge percorrendo dapprima la valle della Bionia, indi quella di Casterino, a cui sovrasta, tremenda a vedersi, la Cima d’Abisso. Da questa valle, piegando a mancina, si sale non senza stenti fino ai ghiacciai che alimentano il lago Verde, cui l’asprezza de’ luoghi che lo circondano rende più ameno. Il percorso da Tenda a questo lago è di cinque ore a un dipresso.
Le mie ricerche tornarono sul bel principio infruttuose. Le rupi e i massi accuratamente osservati, non presentavano traccie di figure e di intagli fatti dalla mano dell’uomo. Già si disperava d’ogni buona riuscita, quando due giovani mandriani, pratici di quelle alture, si offersero a guidarmi a que’ banchi rocciosi su cui trovansi le incisioni. Non Le dirò la mia gioia a quella vista inattesa, tanto più che a un tratto mi avvidi che la più parte di queste era sfuggita ad ogni ricerca. Tacerò dell’ardore, con cui sebben spossato dal faticoso cammino per dirupi senz’orma, io mi accinsi a ritrarle; nel che debbo mostrarmi gratissimo al sig. Degiovanni, che in questo intento adoperossi più assai di me stesso: non che al prof. Bacchialoni, che da me invitato ritornò pure altre volte sovra que’ greppi e ne cavò alcune figure che con Le mie le trasmetto. Mi preme anche accertarla che tutte queste furono prese con la maggior diligenza possibile, e alcune d’esse poi ricorrette sui luoghi. Niun dubbio che se io avessi potuto far ivi più lunga dimora, e con maggior frequenza di quello non l’abbia fatto in pochi giorni, perlustrare ogni più remoto angolo della scoscesa vallata, avrei potuto recar meco un maggior numero di geroglifici tuttora ignorati.
Dalla indicazione sovrapposta agli stessi l’E. V. potrà rilevare che alcuni di questi trovansi superiormente al lago Verde, gli altri in numero di 39 nella Valletta sottostante alla cima nomata di Santa Maria. Veggonsi in banchi di schisto giallastro, (serpentino schistoide), e al pari di quelli di Val d’Inferno appaiono incisi a punta di scalpello di ferro o di silice, con una serie di bucherelli tondi e contigui. Moltissimi son corrosi dall’azione del ghiaccio e delle intemperie, di guisa che torna assai malagevole il delinearli. Rappresentano, come l’E. V. potrà rilevare, teste di ruminanti, chiocciole, serpi, pelli d’animali, segni ovali e quadrati, reticoli, utensili affatto primordiali e sconosciuti, armi diverse, alcune figure d’uomo in istrani atteggiamenti, e parecchie altre immagini che hanno qualche riscontro con quelle già divolgate. E notevole, tra le altre, la figura 9a, della prima serie, che rappresenta esattamente un gruppo di stelle, (gli astronomi potranno dirne il nome che io ignoro) il quale scorgesi ogni sera dalla parte del mezzodì. La linea retta non è che scarsamente rappresentata. Voglia l’E. V. comparare questi simbolici intagli con quelli già messi fuori da alcuni scrittori e ripubblicati in Italia da Francesco Molon, e avrà prove non dubbie che i più d’essi sono tuttora sconosciuti.
La ispezione di questa valle ha nel suo complesso maggiormente raffermato le conclusioni del mio opuscolo, I laghi delle Meraviglie in Val d’Inferno, in cui intesi a dimostrare col presidio della storia, colle deduzioni della scienza e col corredo di altri argomenti, che questi arcani caratteri son dovuti a quelle pelasgiche immigrazioni, che vennero simboleggiate nell’Ercole Tirio o Fenicio. Le quali dopo avere occupato la Spagna,
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discesero i Pirenei e per la valle del Rodano si cacciarono nell’alpi marittime, ove primamente apersero quella ampia via che i Romani dicean la Domizia, e vi posero stanza in cerca dei metalli onde abbondavano quelle montagne. Non ripeterò qui gli addotti argomenti. Bensì rileva osservare quanto stranamente andassero lungi dal vero, per rispetto all’origine di questi primitivi caratteri, gli archeologi francesi, i quali come Lèon Clugnet, li riferivano a passatempo di pastori, ovvero, come l’Henry, all’azione di un antico ghiacciaio, o, come Edmondo Blanc, ad altrettanti ex voto offerti ad una tremenda deità, che suppone avesse in Val d’inferno sua sede. Con più senno Emilio Rivière spedito con il De Vesly dal governo francese ad esplorare la valle anzidetta, intravide un barlume di vero, indicando queste opere di libica origine, e scorgendo in alcune di esse una qualche analogìa con le iscrizioni fenicie, senza soffermarsi per altro a sviscerare più addentro questo punto capitale dell’istoria primitiva dell’uomo.
Chi avesse modo di poter comparare questi preistorici intagli con quelli di fresco scoperti in quelle regioni che sappiamo essere state percorse dai Fenici e delle quali fò cenno nel mio opuscolo; niun dubbio che l’arduo problema potrebbe risolversi. Ma anzitutto fa mestieri di raccorre un buon numero di questi caratteri, per poter istituire opportuni raffronti; ond’è che intendo ancora recarmi ad una più compiuta esplorazione delle valli anzidette, in ispecie di quelle di Casterino e di Valmasca, che pur esse presentano argomenti certissimi di primordiali consorzi.
§ 1.
L’invito da me rivolto alla gioventù ligure a perlustrare le Alpi marittime, in ispecie i Laghi delle Meraviglie in Val d’Inferno, sortiva in parte il suo effetto; poiché sul primo scorcio dell’agosto 1885 una mano d’arditi alpinisti della società Cristoforo Colombo di Genova, guidata dall’ egregio suo presidente il cav. Giuseppe Oberti, precedendomi di un giorno, prendea la via di S. Dalmazzo e di Tenda. Faceano parte dell’eletto drappello i signori Castelli, Bricchetto, Villa, Barabino, Dall’Aglio, ecc., che insofferenti d’indugio, il dì appresso il loro arrivo salivano ai Laghi Lunghi, ove il Castelli fotograficamente potè ritrarre alcune vedute dell’alpestre vallata. Altri si travagliarono alla ricerca d’inscrizioni, e venne lor fatto di cavarne parecchie, che videro la luce su diversi diari. È a dolere che questi giovani fidandosi sul loro coraggio a prendere a scherno ogni rischio, non abbiamo in tempo opportuno abbandonato quel luogo battuto pressoché ogni giorno dalla grandine e da violenti rovai: talché sopraffatti da un gruppo di turbini, furono costretti a spulezzare più che di fuga e non senza lor grave pericolo da quelle forre, in cui gli uragani pare abbiano posto il permanente lor regno (1). Sferzavali d’ogni lato il maestrale: una pioggia dirotta li flagellava: e le cascatelle tramutate in torrenti, piombavano dalle imminenti giogaie, e travolgendo massi e catulli di rupi, minacciavano ad ogni istante di seppellirli. Non fu al certo quella una lieta ora per i miei buoni amici, che forse avranno in cuor loro maledetto chi li spinse a visitare, anzi tempo, le regioni infernali.
In quel giorno istesso sull’imbrunire io giunsi in Tenda, e li trovai nell’Albergo Nazionale con le vesti ancor madide e pressoché affranti dalla corsa precipite di parecchie
(1) Egual fenomeno incontra sulla montagna della Tavola presso il Capo di Buona Speranza e nella Sierra Liona. Una lieve nuvoletta appar sul balzo d’oriente e va poco a poco allargandosi, finché annemba ad un tratto, dà un vento furioso e rompe in pioggia ed in grandine. I montigiani ed i marinai la dicono occhio di bue.
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ore. Divisarono doversi partire il dì appresso, dovendo alcuni di loro trovarsi altrove per non so quai pressanti negozi. Di buon mattino io gli accompagnai per non breve tratto sulle alture di Tenda; ci ricambiammo un bacio fraterno ed io rimasi soletto a compiere le mie esplorazioni.
§ 2.
Nelle quali sul bel primo la sorte mi volse affatto sinistra. Più volte mi avventurai sulla via della Miniera tentando penetrare in Val d’Inferno; ma una fitta distesa di nubi che su quella incombeva e il rombò de’ tuoni echeggianti all’intorno, erano indizi troppo palesi che assidue tempeste si scatenavano su quelle montagne. Ciò veniva eziandio certificato dalle acque torbide e limacciose delle fiumane e dei rivoli che si riversavano nella Miniera o Bionia, più dell’usato gonfia e superba. Io stava per rimuovermi affatto da quell’impresa, quando mi soccorse l’idea di perlustrare le valli contermini, inesplorate ancora dai dotti, e in ispecie quelle di Casterino Valmasca e Fontanalba, parallele a quella dei Laghi, da cui la divide il colosso del Bego. Né posi indugio a colorire un tale disegno. Diè la sorte ch’io avessi da alcun tempo corrispondenza epistolare con il sig. Pietro Degiovanni maestro in Tenda, da cui s’aspetta la storia di quel comune; egli mi si profferse a compagno nelle divisate escursioni. A lui si congiunse il prof. Francesco Bacchialoni fino allora a me ignoto, ma che accettai di buon grado per terzo, avendolo scorto d’un tratto più che attivissimo a quell’impresa. Sovvenuto da tali aiuti, io tolsi meco due guide, di cui l’uno, cioè Domenico Lanteri, ardito cacciator di camosci e conoscitore dei luoghi: e la notte del 9 agosto ci ponemmo in cammino.
§ 3.
Non è mio intento descrivere il vallone della Miniera e altre cose già note; dirò soltanto che dopo parecchie ore di via, lasciando alle spalle il ponte che s inarca sulla Bionia e la sua stupenda cascata, infilammo il sentiero di Casterino, a cui sovrasta minacciosa la cima d’Abisso, e in cui son visibili le impronte di un antico ghiacciaio. Ivi il Lanteri si diè a percorrere i luoghi all’intorno, se per avventura potesse aver lingua da qualche pastore sugli intagli scolpiti sopra le rupi: ma ogni sua ricerca fu vana, essendo affatto deserta la valle. Giunti presso il luogo della Maddalena, così detta da un’antica cappella di questo nome, abbandonammo il preso sentiero per guadagnare l’erta del monte che levasi a mancina e che mette a Fontanalba. Ripida da pria la salita all’ombra degli abeti e de’ tassi: appresso men malagevole, finché si pervenne ad una angusta pianura sotto enormi ciglioni di rupi e un rialzo da un lato, che offriva tutto l’aspetto d’un di que’ temeni o recinti, che rinvengonsi in parecchi altri luoghi delle alpi marittime e della Provenza.
Compito ivi il nostro asciolvere, si riprese l’ascesa fra nuove rupi su traghetti senza orme, sotto una sferza solare contro cui non v’era riparo. Vedovo d’ogni vegetazione il terreno, da pochi tratti in fuori, ove stagnano l’acque pioventi dal sommo dei gioghi. Ivi cominciammo le nostre esplorazioni: non una pietra confitta nel suolo, non uno scoglio sfaldato dai picchi imminenti che non sia stato studiosamente osservato. Ogni indagine riusciva infruttuosa. Giungemmo pressoché siduciati sulle rive del Lago Verde, che può da tre parti percorrersi, e che fra gli orrori di quella desolata natura ci parve amenissimo. Selvette d’annose piante ne ombreggiano le sponde: limpidissime le acque, con ne-
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trovi dal lato orientale una rupe, a mo’ d’isoletta, sormontata da un gruppo di larici. Attorniano il lago enormi scogliere che i sovrastanti ghiacciaj travolsero in basso ma per quanto fossero in ogni verso esplorate, non ci venne fatto di trovar ivi traccie di figure o d’iscrizioni simboliche.
Salimmo più che mai desolati alla Vastera di Fontanalba: ed ivi quando appunto ogni speranza di felice riuscimento era ormai dileguata, due giovani caprai in cui ci imbattemmo, si proffersero. a guidarci ne’ luoghi ove abbondavano gl’intagli da noi ricercati. Alcuni di questi ci vennero infatti additati sui massi di roccie a pochi tratti della memorata Vastera, superiormente al Lago Verde: altri in maggior copia in un ripiano non molto discosto: altri infine sotto la Valletta di Santa Maria a 2582 metri sul livello del mare. Ne raccogliemmo in quel giorno e nei dì successivi, per opera in ispecie del professore Bacchialoni, ben cinquantanove, che vennero per la più parte disegnati dal Degiovanni: e ad entrambi m’è caro rendere pubbliche testimonianze di grazie.
E qui restringo il racconto della mia perlustrazione nella valle di Fontanalba per aggiungere alcuni riflessi di qualche momento per chi rivolge i suoi studii sulla età preistorica della Liguria.
§ 4.
La scoperta delle accennate iscrizioni figurative pone fuor d’ogni dubbio che Val d’Inferno non è la sola in cui veggansi sculti que’ segni grafici, che tanto alto rimontano nel buio de’ secoli. Anche Fontanalba ne porge un gran numero, come forse Valmasca, per quanto mi fu dato raccogliere dalle voci di alcuni pastori. Né forse le alture della piana di Casterino ne vanno prive. È mio proposito di visitarle non appena mi si consentano ozii a ciò sufficienti, e la buona stagione mi alletti ad internarmi in quelle deserte regioni.
Il raffronto di queste iscrizioni con quelle di Val d’Inferno pone in sodo, che quelle popolazioni le quali lasciarono in questa di se tanti vestigi, furono quelle stesse che sulle rupi di Fontanalba impressero i lor caratteri simbolici e coneiformi. E quali probabilmente esse fossero, già per noi venne chiarito nell’opuscolo i Laghi delle Meraviglie, che precede questa memoria. Altra ipotesi non parmi accettabile, da quella in fuori, de’ venturieri pelasgo-fenicii, che in tempi anteriori ad ogni istoria scesero dalla Spagna per la valle del Rodano ad occupar l’Alpi in cerca di preziosi metalli, prima assai che altre migrazioni esclusivamente fenicie approdassero alle nostre rive marittime. Non fa al nostro proposito divisar l’istoria di questo popolo, che chiuso dalla natura in una angusta e sterile costa appiè d’ardue montagne, si die’ assai per tempo all’imprese marinaresche, e dopo aver eretto nella sua portuosa regione cospicue città, quali Tiro, Sidone, Biblo, Arado, Tripoli, Berito e Sarepta, sparse di sue colonie l’Eusino, le Cicladi, la Spagna dalle foci del Guadiana e del Guadalquivir fino alla Murcia, l’Egeo, la Sicilia, la Sardegna, le Baleari e il settentrione dell’Africa. Le sue navi recavano l’oro, l’argento, l’avorio, le pietre preziose, il legno di sandalo, le scimmie, i pavoni e mille altre mercatanzie per l’istmo di Suez a Rhinocolura e quindi a Tiro, da dove spargevansi per tutto il mediterraneo. L’Helbig già dimostrava che senza riferirsi a Fenici mal si comprende l’Etruria di cui furono essi i maestri prima che il greco influsso cancellasse ogni lor traccia. Noi del pari mal possiamo comprendere la primitiva Liguria, la vivezza dei suoi commerci, la potenza delle sue armate, i suoi spandimenti in lidi lontani senza far capo a questo popolo, che scaltrì i nostri padri a vita e a costumanze civili.
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§ 5.
Andrebbe per altro assai errato chi volesse dal sopradetto inferire che le orde migranti le quali primamente apersero l’Alpi, fossero quei stessi navigatori che dai lidi di Gebal, d’Arado e di Tiro posero alle nostre costiere, scambiando coll’ambra ligustica i lor ricchi prodotti. I volghi nomadi a’ quali noi riferiamo le scritture rupestri, precedettero d’assai le navigazioni di quei lor confratelli di stirpe, che più tardi visitarono nostri lidi, e che forse ebbero da quelli contezza delle nuove regioni italiane ch’essi aveano conquistate. (1) Da ciò un’altra illazione: l’essere, cioè, questi venturieri che sappiamo appartenere a diverse nazioni, (2) in uno stato di civiltà assai meno inoltrata: poiché se possedeano l’uso dei metalli, non aveano ancora un vero alfabeto, ma ne usavano uno figurativo o ideografico, come scrive Lucano, e come riscontrasi lungo la via per essi tenuta dai Pirenei all’Alpi ligustiche.
Ad accertare la presenza di queste genti asiatiche nelle nostre regioni, non è mestieri ch’io aggiunga nuovo rincalzo di prove. Le testimonianze d’autorevoli scrittori, quali Dionigi Alicarnasseo, Diodoro Siculo, Mela, Eschilo, Ammiano Marcellino e Strabone, già per me altrove allegati, concordano nello ammettere non solo la loro venuta, ma eziandio le lunghe guerre esercitate contro i volghi aborigeni che si opposero al passaggio d’Ercole che le simboleggia, le vie gigantesche ivi aperte (3) ed altre circostanze siffatte, di cui toccai nell’accennato mio scritto, a cui rimando il lettore.
Non mi si appunti se osai evocar la leggenda, anziché foggiare ipotesi affatto arbitrarie. È canone della critica istorica doversi l’età sconosciuta chiarire con le tradizioni più generalmente accettate. E tale è per fermo quella del valico alpino aperto dall’Eroe libico a scopo di conquiste e di traffici: essendo noto che il commercio degli antichi differia dall’odierno per essere principalmente terrestre. Il mare non era che una via secondaria e come uno sfogo al commercio di terra. (4) Per questo valico transitavano le asiatiche carovane, non senza lunghe soste per cavare i metalli delle nostre montagne, e raccorre le peci delle nostre foreste; (5) per questo valico scendevano nelle valli padane a spacciar le derrate che recavano dalla Spagna e dalla Gallia: carovane convogliate da grosso nerbo d’armati per assicurarsi dalle correrie degli alpigiani non mai del tutto aggiogati.
Del resto noi siamo ben lontani dal dare a queste nostre induzioni un valor maggiore da quello che può attribuirsi ad un primo tentativo in materie difficilissime e che forse rimarranno sempre un arcano. Bensì giovi a nostra giustificazione osservare, che fra tante teorie testé messe fuori, quella da noi propugnata è forse la sola che meglio consuoni ai postulati della storia, della critica e della ermeneutica.
(1) Questi Khèfa o fenici, usciti dall’Asia minore, troviamo rappresentati sui bassirilievi egiziani, essendo noto ch’essi invasero eziandio la valle del Nilo sotto la 19a o 20a dinastia.
(2) Exercitus eius (Ercole) compositus ex variis gentibus: ex eo numero Medi, Perses et Armenii. SALLUSTIO Bell. Iugurth. Cap. XIV.
(9) A questa via Erculea, fatta sacra dalla religione e dalle leggi, accenna pur anche Aristotile cui si attribuisce il libro De Mirabilibus. Ivi leggo: Ferunt in Italia esse viam usque ad Celtiberos et Gallos: Erculeam vocant: in qua et Greci et indigene omnes transeuntes ab incolis abservantur, ne aliquid eis accidat.
(4) Veggansi le opere di Heeren e Gatterer, non che Cesare Cantù. vol. 1 pag. 470.
(5) Vuolsi da alcuni che l’Italia traesse il nome da Itaria che in fenicio val terra della pece, a cagione del largo traffico che ne faceano appunto i Fenici.
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§ 6.
Ma quali erano i popoli di cui i volghi invaditori aprivano le sacre foreste, e con i quali ebbero lungamente a lottare? Quali le lor costumanze e il lor grado di civiltà? Prima del lor contatto con le migrazioni semitiche, noi troviamo i Liguri Vediantii dell’Alpi in istato di semi barbarie, laddove quelli delle prode marittime e della pianura erano assai più, innanzi negli abiti de’ civili consorzi. Avvezzi gli alpini al cupo orrore dei boschi nulla maggiormente apprezzavano della lor selvaggia indipendenza. Viveano di cacciagione, di latte e di ghiande: (1) dall’orzo fermentato stillavano una cotal loro bevanda che tenea luogo del vino. Si coprivano con pelli d’animali, cui le donne cucivano con aghi d’osso. Abitavano tugurii contesti a forcelle di rami commessi con vimini attorcigliati e sopravi canne palustri a schermo delle pioggie e de’ venti; altri aveano a rifugio tane cavate sotterra e ricoperte di pietre; altri serbavano ancora consuetudini affatto trogloditiche; anzi erano abitazioni anche i vasti tronchi degli alberi, onde favoleggiossi di genti nate da quercie. I più dormivano sullo strame in un cogli armenti a cielo scoperto. (2) Le loro prime capanne più regolari debbono riferirsi a’ Fenici che le nomavano beht, beta: onde il nome di baita con cui si chiamano i lor casolari. Troviam costrutti i lor pagi sulle poppe de’ gioghi: in ciò diversi dai Galli che soleano porre i lor tabernacoli in fondo alle vallate; non ultimo indizio della niuna cognazione fra le due stirpi. Di piccola statura li pinge Diodoro: di complessione secca e nervosa: (3) sobri, economi, dati al lavoro in ingrato terreno li predicano Strabone e Virgilio: (4) anche in ciò diversi dei Galli sprofondati in tante brutture, quante ne accenna l’allegato Diodoro.
§ 7.
Gli uomini di cui trattiamo appartengono alla seconda età della pietra, ch’è quella della pietra levigata; forse anche cominciava per essi l’età del bronzo, senza per altro ammettere che colla introduzione di questo metallo cessasse l’uso delle scuri di serpentino e delle freccie di selce, ossia cessasse del tutto il periodo neolitico. Certo è che a quest’epoca, quella, cioè del trapasso della pietra levigata all’età di bronzo, si mostra fra noi l’ambra, di cui molti oggetti come fìbule, pallottoline forate che doveano servir di collane, pendagli a goccie e accini di forma trapezoidale, ritrovansi in parecchi sepolcreti dell’Alpi marittime e della Provenza abitata del pari da razze liguri. E ancora mal noto se i Fenici che ne faceano gran traffico e che la introdussero primamente tra i Belgi, come afferma il La Baye, la traessero dalle coste dell’oceano settentrionale, o se fosse indigena, come è opinione d’alcuni e in ispecie del Cappellini. E invero non può mettersi in dubbio, stando agli antichi scrittori, che l’ambra si rinvenisse eziandio nelle regioni circumpadane, come sembra indicare l’istessa favola che vuole tramutate in ambra le lagrime delle sorelle di Fetonte. Che in Liguria veramente nascesse lo attesta Teofrasto
(1) Quercus bellota.
(2) Antiquis enim torus e stamentis erat. PLIN. XIII, c. 78. Il materasso si dice ancora stramas.
(3) DIOD. SICUL. IV. c. 20.
(4) STRAB. III.
(5) DIOD. SICUL V.
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nel IV secolo anzi l’éra volgare, (1) rincalzato di Plinio; (2) ma forse essi parlano dell’ambra o resina fossile, ovvero del lyncurium o longurium, cui Sudines e Metrodoro fan proveniente da un albero della Liguria che nomano lynx. (3) Questioni troppo fin ora arruffate e forse d’impossibile risolvimento.
§ 8.
Ritornando dopo queste intramesse al nostro primitivo assunto, diremo, che gl’intagli delle rupi di Fontanalba altro non sono che la rappresentazione di que’ tipi e di quegli oggetti ch’erano comuni e che più cadeano sott’occhio. Tali in origine i caratteri di tutte le nazioni. Scrive Abel-Rèmusat «les anciens caractéres ont commencé par être des signes figuratifs destinés à peindre les objects matèriels, et ne sont étendus que postérieurement et par 1’effet de divers procédés plus on moins ingénieux à la représentation des idées abstraites» (4) Le incisioni alpine altro non ci offrono anch’esse che segni figurativi esprimenti l’idea di cui si riproduce la forma; più rari i segni simbolici significanti idee metafisiche o astratte, come a mo’ d’esempio, la figura dell’uomo colle braccia alzate, che forse esprime l’idea d’un’offerta a qualche divinità tutelare. In oriente questi geroglifici si convertirono con successivi procedimenti in caratteri cuneiformi, di cui anche fra noi riscontransi alcune vestigia; ma in generale le incisioni dell’alpi marittime sono ancor ben lontane da un tale svolgimento, che forse pienamente mai non attinsero per non essersi radicati i loro autori fra noi e per essere i volghi indigeni, dopo la dipartita di quelli, ricaduti nella primitiva selvatichezza. Difficile quindi richiamare alla mente il vero concetto di cui queste figure furono la rappresentazione od il simbolo.
§ 9.
Certo egli è ch’esse non ostante le ingiurie de’ secoli, appaiono singolarmente distinte e incise, avvegnaché rozzamente, con una serie di bucherelli tondi e contigui, da man salda ed esperta. Rappresentano teste di ruminanti, chiocciole, serpi, pelli d’animali,; reticoli, segni ovali e quadrati, armi diverse, arnesi affatto primordiali e sconosciuti, alcune figure d’uomo in istrani atteggiamenti, e parecchie altre immagini che offrono un lontano riscontro con quelle già divulgate di Val d’Inferno. Noi siamo ben lungi per fermo dai monumenti scolpiti nelle roccie delle valli di Sangarios e dell’Argolide, forse anche di quelle del Sinai: pure abbiamo dinanzi una serie di cimelii anteriori ad ogni istoria e e coevi all’età litiche. E un maggior numero ne verrà indubiamente alla luce, ov’altri prosegua con pari ardore le nostre scoperte. Sono esse i primi saggi d’un arte ancor fanciullesca: i primi rudimenti di una ideografia, ossia di una scrittura per figure e per simboli che ignoriamo se sia progredita sino al fonotismo, ossia ai segni di cifre e di lettere: i primi tentativi di un alfabeto rudimentale che non sappiam divinare, ma i di cui artefici vollero con esso eternare nel sasso una serie di avvenimenti per essi compiti, e che al postutto ci attestano la presenza di una gente invaditrice che si sovrappose agl’in-
(1) De lapidib. C 23 e 29.
(2) Hist. Nat. XXXVII, 33.
(3) Hist. Nat XXXVII, 34.
(4) Mémoires de l’Institut Royal de France; Accadèmie des Inscriptions et Belles-Lettres Vol. 8, pag. 4.
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digeni. Gl’insulti delle stagioni e i sovvertimenti del suolo annientarono una gran parte di questo alfabeto, e forse quella che più chiaramente ne avrebbe indicato gli autori; ma la parte che ancor ne rimane ci chiarisce non poco intorno lo stato della lor civiltà, dei loro rozzi costumi, dei loro utensili, delle lor cerimonie, delle armi che usavano degli animali con cui erano in lotta; né certo sarebbe fuor del probabile, che in queste opere avessero anche parte i nativi, stando però sempre per fermo che fu una gente straniera quella che loro apprese tal’arte; poiché in altri luoghi della Liguria, non visitati al pari dell’alpi marittime da immigrazioni fenicie pelasgiche, non si rinvenne mai saggio veruno di queste sculture. Documenti di un pregio inestimabile ove sorga chi le raccolga, le raffronti e compia il libro, di cui queste mie pagine non sono che la prefazione. Si posero in luce l’età arcaiche dell’Assiria e della Caldea per opera del Botta e di M. de Sarzec: si scifrarono i misteriosi caratteri di Nimroud, Khorsabad, Kouioundjh e di Tello. Giovi sperare che qualche dotto italiano spiri in queste iscrizioni quel soffio di vita, che Rawlinson, Layard, Mariette e Maspero spirarono in quelle dell’Egitto e dell’Asia.
Original reference:
Celesia E., 1886. Escursioni alpine, I. – I laghi delle Meraviglie, II. – Fontanalba, estratto dal Bollettino ufficiale del Ministero di pubblica istruzione, fasc. V°, maggio 1886, 27 pp., 4 tavv.
[17×26 cm; 2 tavv. 42×26 cm]
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